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Un patto «verde» nel nome di Keynes

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Ormai comincia a essere ampio il fronte di lavoratori e imprenditori che reputano le politiche di austerity gene¬ratrici soltanto di recessione.

Fonte: L’Unità

Autore: Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Il fallimento sempre più evidente delle politiche di austerity imposte a Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna prolunga quelli conseguiti negli ul­timi vent’anni dal Fondo monetario in­ternazionale all’insegna del neoliberismo – deregulation e feroci tagli alla spesa pubblica – negli interventi «a favo­re» dei Paesi in via di sviluppo, e qui in Italia assistiamo alle reazioni preoccu­pate di Confindustria nei confronti della ricetta del tardo-liberista Monti. La «macelleria sociale» evocata da Squinzi in mezzo a clamori e polemiche ha alle sue spalle lo stato comatoso dell’ econo­mia italiana, in particolare dell’indu­stria manifatturiera. E l’attacco del premier alla concertazione non è davvero ignoranza della storia del Paese degli ultimi vent’anni, ma appare piuttosto il lucido annuncio di una politica deflatti­va contro i lavoratori. Cioè, altra reces­sione.
Ormai comincia a essere ampio il fronte di lavoratori e imprenditori che reputano le politiche di austerity gene­ratrici soltanto di recessione. E, sulla scorta dei vari Stiglitz o Krugman, ri­compare Keynes e la sua laudatio del de­bito pubblico «buono»: per rilanciare la crescita lo strumento fondamentale re­stano gli investimenti a carico dello Sta­to. Il rapporto tra economia e democra­zia ridiventa un tema di grandissima rilevanza, mentre la «regressione» del lavoro – la sua perdita di peso sociale e politico, la riduzione dell’occupazione- viene riconosciuta come causa stessa della crisi. In un contesto dove, peral­tro, non c’è alternativa alla difesa dell’euro; i piani B di uscita dall’euro, che populismi di destra e di sinistra pro­pongono, corrispondono a esiti sociali sanguinosi quanto quelli delle politiche deftattive nella testa di Monti, allo sbriciolamento della residua coesione so­ciale, alla rinuncia disastrosa a quell’Europa politica che resta pur sem­pre un grande riferimento di generazio­ni passate, presenti e future.
Nell’agitarsi di queste idee stupisce lo scarso spazio dedicato dagli economi­sti – anche nella recente giornata sul «programma per l’alternativa» promos­sa dall’ Associazione per il Rinnovamen­to della Sinistra e dalla Fondazione Di Vittorio – al tema della riconversione ecologica dell’economia, se non in ter­mini di una maggior attenzione alla do­manda. Eppure la riconversione resta una risposta fondamentale all’attuale crisi di sovrapproduzione capitalistica e al nuovo carattere, che la globalizza­zione le conferisce, di impossibilità del­la crescita della domanda di adeguarsi alla crescita dell’offerta. La lenta tarta­ruga non raggiungerà il piè veloce Achille, mentre la crisi ambientale, se­gnata dai drastici cambiamenti dovuti al passaggio all’instabilità climatica, an­nuncia inesorabile il «time over» per ogni risposta economica tradizionale, anche neo-keynesiana.
Su questo ritardo della cultura eco­nomica della sinistra, a destra neanche a parlarne, abbiamo almeno vent’anni di mancato ascolto. Sarebbe però inac­cettabile, nel momento in cui si palesa almeno in Italia la plausibilità di un «patto» tra imprenditori e lavoratori contro la recessione, che sul terreno dei programmi concreti ognuno tirasse fuori le sue ricette gelosamente elabo­rate e custodite, a rischio di incompren­sioni e perdite di tempo, mentre c’è già un «avviso comune» delle tre maggiori confederazioni sindacali, e con Confindustria, sul «Piano di efficienza energe­tica 2010 – 2020» presentato a settem­bre 2010 da Confindustria.

Anche a non essere interessati alle positive conseguenze ambientali, e sani­tarie, del Piano e alla sua adesione agli obiettivi Ue il 20% di emissioni di ani­dride carbonica tagliate entro il 2020 in virtù del risparmio del 20% di combu­stibili fossili – è proprio sull’aspetto oc­cupazionale che si raggiungerebbero ri­sultati mai conseguibili, anche rispetto ai settori produttivi coinvolti, con altro tipo di investimenti (come quelli alla Passera per capirci): un milione e sei­centomila unità lavorative annue attiva­te sul decennio a fronte di un investi­mento pubblico di complessivi 16,7 mi­liardi di euro. Sarebbe colpevole e auto­lesionistica omissione se sindacati e Confindustria non mettessero quel Pia­no sul tavolo