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L’insicurezza energetica del 2050

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Uno studio della Hong Kong and Shanghai Banking Corporation (Hsbc), ha delineato lo scenario energetico del pianeta all’orizzonte del 2050 tenendo conto degli ultimi avvenimenti internazionali, dalle “primavere arabe” al relativo balzo del prezzo del barile di greggio, ma soprattutto all’incidente di Fukushima, destinato prevedibilemente ad alterare a fondo l’opzione dell’atomo nella produzione globale di energia.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Autore: Paolo Migliavacca

Se tutto continuasse secondo il trend attuale, nel 2050 il mondo si ritroverebbe con una situazione energetica insostenibile: una domanda di petrolio balzata a 190 milioni di barili/giorno (+11,5% rispetto agli 89 mb/gattuali), derivante in particolare dalla necessità di alimentare tra 1,7 e 2 miliardi di automobili (si veda l’articolo sotto); un raddoppio della domanda energetica globale procapite, frutto degli standard di vita sempre più elevati cui perverranno i Paesi in via di sviluppo, Cina e India in testa; un raddoppio della quantità di carbonio immessa nell’aria rispetto ai livelli attuali, a sua volta superiore di 3,5 volte alla quantità necessaria a contenere la temperatura dell’atmosfera entro livelli giudicati accettabili.
Lo scivolone dell’atomo
Questo il quadro che ipotizza uno studio della Hong Kong and Shanghai Banking Corporation (Hsbc), colosso mondiale del credito con sede a Londra, che ha delineato lo scenario energetico del pianeta all’orizzonte del 2050 tenendo conto degli ultimi avvenimenti internazionali, dalle "primavere arabe" al relativo balzo del prezzo del barile di greggio, ma soprattutto all’incidente di Fukushima, destinato prevedibilemente ad alterare a fondo l’opzione dell’atomo nella produzione globale di energia.
La tendenza oggi in atto, per diverse ragioni, ovviamente non potrà (e non dovrà) continuare invariata, perché insostenibile sul piano materiale. A metà secolo l’umanità non disporrà di tutto il petrolio che sarebbe richiesto: anche solo ai ritmi attuali di consumo, i 1.333 miliardi di barili di riserve accertate durerebbero 45 anni, cioè fino al 2055. Se ipotizziamo livelli d’incremento di utilizzo più che doppi, l’esaurimento del petrolio si avrà addirittura intorno al 2030. Il gas, più abbondante, creerà problemi di approvvigionamento e ambientali (l’estrazione dello shale gas, destinato ad affiancare il metano, "classico", rischia di inquinare pesantemente le falde idriche), mentre il carbone, abbondante quanto a riserve accertate (circa 120 anni, ma alcuni parlano addirittura di 176), è però nefasto per i residui che la sua combustione lascia. La sicurezza energetica (intesa come la produzione pro-capite di energia interna a un Paese) diverrà sempre più incerta in vaste regioni del pianeta: America latina, India ma soprattutto Europa, dove gran parte dei Paesi che la compongono saranno totalmente dipendenti da fornitori esterni.
Il principale fattore di allarme deriva però dal fatto che il riscaldamento globale, frutto dell’aumento inesorabile delle emissioni di CO2, colpirà spietatamente il mondo, ma soprattutto i Pvs, i più esposti alla desertificazione, ai fenomeni atmosferici eccezionali (tifoni, alluvioni o siccità) e alla rarefazione delle risorse idriche. Lo studio di Hsbc sottolinea la contraddizione che si va profilando: se si perpetuasse, come molti ormai paventano, un’ulteriore moratoria nella costruzione d’impianti nucleari come contraccolpo all’incidente di Fukushima – sulla falsariga di quanto accadde per quasi un ventennio dopo Chernobyl – dato quanto premesso finora occorrerebbe un massiccio passaggio alle energie rinnovabili per poter fare fronte alla domanda energetica inesorabile aumento. E soddisfare gli obiettivi di contenimento delle emissioni. Le risorse ci sono: il potenziale mondiale – ricorda lo studio Hsbc – è di 186miIa TW/h, contro una produzione di 20,01 TW/h nel 2009.
Mix equilibrato
Le fonti rinnovabili, tuttavia, diventano competitive solo in presenza di corsi molto elevati del petrolio. Con l’eccezione appunto del nucleare e della geotermia, disponibile però solo in zone piuttosto limitate del pianeta. L’obiettivo ottimale di un mix equilibrato di fonti produttive, se soddisfa abbastanza bene i requisiti ambientali, costituisce un formidabile ostacolo allo sviluppo soprattutto dei Paesi meno avanzati, la cui ricetta standard di sviluppo si basa su bassi costi energetici per mantenere prezzi concorrenziali alle loro produzioni. Dunque, soprattutto su idrocarburi e carbone.
La minore intensità energetica (e quindi la maggiore efficienza) delle produzioni, generando risparmio, premia chi già è efficiente, malgrado gli alti costi produttivi, e costituisce un meccanismo di parziale riequilibrio. Lo studio ricorda come la Svizzera, per soddisfare le necessità del suo settore manifatturiero, che generava il 20% del PiI, nel 2007 avesse un’intensità energetica solo dello 0,09 (900mila tonnellate di petrolio equivalente per produrre 1 milione di dollari di valore). La Danimarca ha più che dimezzato i suoi valori tra il 1970 e il 2006, passando da 0,23 a 0,11. L’India, per contro, restava a livelli eccessivi, quasi 10 volte superiori a quelli elvetici (0,84).