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Frena la crescita della produzione e l’industria delle rinnovabili crolla

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Investimenti nelle “pulite” scesi da 15,2 a 4,3 miliardi di dollari nel corso del 2013 mentre si è dimezzato il trend di aumento di energia ricavata dalle “alternative”. E tutto perché è rimasta lettera morta la proposta avanzata dagli Stati Generali della Green Economy. Migliori i numeri all’estero.

Fonte: La Repubblica – Affari & Finanza

Autore: Antonio Cianciullo

Milano Green economy e rinnovabili continuano a correre, nonostante la crisi? In ambito ecologista il sì è la risposta scontata. Ma vera solo in parte. Dal punto di vista globale, con i picchi che bilanciano le cadute, il trend di crescita effettivamente è netto e i singoli scivoloni appaiono trascurabili. Dal punto di vista nazionale invece il quadro si delinea in modo molto diverso: una cosa è viaggiare in vetta, una cosa è sprofondare in una fossa. E da almeno un paio di anni l’Italia si è messa d’impegno a scavarsi una buca. La denuncia viene da Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile: «Nel 2013, in base ai dati Bloomberg New Energy Finance, gli investimenti sulle rinnovabili in Italia sono scesi da 15,2 a 4,3 miliardi di dollari. Non è un calo, è un crollo di oltre il 70 per cento. E si tratta di una scelta voluta, frutto di un aggravio del peso della burocrazia e della ferma volontà di applicare una serie di tagli capestro degli incentivi invece di una discesa pilotata come quella pianificata dalla Germania». Eppure gli Stati generali della green economy avevano formulato una proposta articolata per evitare un aggravio dei costi in bolletta senza sacrificare decine di migliaia di posti di lavoro. La ricetta prevedeva quattro punti. Primo: semplificazioni normative per facilitare la realizzazione degli impianti (oggi i costi delle procedure burocratiche sono di oltre il 20 per cento superiori alla media europea).

Secondo: favorire l’utilizzo diretto dell’energia ottenuta dalle rinnovabili attraverso il sistema degli scambi sul posto e dell’accumulo nelle case. Terzo: utilizzare un meccanismo simile a quello messo in atto per facilitare le ristrutturazioni ecologiche delle case, le detrazioni fiscali. Quarto: fondi di rotazione per garantire l’accesso al credito agevolato. I quattro punti sono rimasti lettera morta e invece i governi che si sono alternati hanno continuamente rimesso in discussione gli impegni assunti creando un contenzioso anche con le banche estere che non hanno apprezzato i tentativi di modificare retroattivamente gli accordi. Ed ecco il risultato finale. Dal punto di vista della produzione elettrica le rinnovabili continuano a marciare in parte per effetto d’inerzia in parte per l’alto consenso che hanno i piccoli impianti di energia pulita: nel 2013 l’idroelettrico (l’annata è stata piovosa) ha segnato un più 21 per cento, il geotermico, più 1 per cento, l’eolico più 11,6, il fotovoltaico più 18,9. Ma il trend di crescita si è più che dimezzato e soprattutto è crollata l’industria: il motore produttivo che l’Italia aveva saputo accendere con uno scatto di orgoglio e di fantasia si sta spegnendo. Il rischio concreto è che la ripresa della produzione di rinnovabili, necessaria per arrivare ai nuovi target che l’Europa si appresta a fissare per il 2030, avvenga comprando all’estero quello che avremmo potuto vendere in Italia. Invece di svincolarci dal peso dei combustibili fossili — che appesantiscono la nostra bilancia commerciale — in questo modo aggiungeremmo un altro carico. «Più che un rischio futuro è in parte un danno compiuto», precisa Giovan Battista Zorzoli, portavoce di Free, il coordinamento Fonti rinnovabili ed efficienza energetica. «Negli ultimi 2 anni abbiamo perso 50 mila posti di lavoro nelle fonti rinnovabili. Se questo fosse avvenuto in una grande fabbrica ci sarebbero stati scioperi nazionali. Visto che è successo in un mondo in cui l’occupazione è frazionata e le persone che hanno perso il posto indossavano casacche diverse dal punto di vista delle tipologie di contratto, il fatto è passato praticamente sotto silenzio. Ma sempre 50 mila posti di lavoro sono andati persi. Persi senza una ragione, dopo una campagna di diffamazione contro le rinnovabili che mirava ad attaccare il settore e non a difendere le bollette perché altrimenti si sarebbero seguite altre strade, come è successo in altri paesi e come è stato proposto anche in Italia». In ginocchio sul piano economico e occupazionale, le rinnovabili continuano però a crescere, trainate da una tendenza internazionale che nel 2013 ha visto un rallentamento degli investimenti (254 miliardi di dollari contro i 289 del 2012) ma non della produzione aumentata per effetto di una continua crescita dell’efficienza degli impianti. Interessante notare che proprio in questo anno di difficoltà, in Europa, le rinnovabili hanno coperto il 72 per cento della nuova potenza elettrica installata. E anche guardando un periodo più ampio (2000 — 2013) le rinnovabili restano al 55 per cento della potenza elettrica installata nel vecchio continente. Mettendo assieme a questi dati le previsioni della Iea (entro il 2016 a livello globale le rinnovabili supereranno il gas e doppieranno il nucleare diventando la seconda fonte elettrica dopo il carbone) si ha il quadro di un mutamento strutturale. La battaglia che l’Italia ha di fronte non è dunque ambientale, perché le rinnovabili sono già a oltre un terzo della produzione elettrica anche se devono recuperare terreno sul fronte del calore e dei carburanti, ma industriale. Il secondo paese manifatturiero d’Europa può lasciare la produzione energetica solo in mani estere? Il paese che ha 2.100 miliardi di euro di debito può continuare a spendere 60 miliardi di euro l’anno per acquistare combustibili fossili? Il paese che ha più del 12 per cento di disoccupazione può continuare a sacrificare un settore che, a parità di investimenti, dà più posti di lavoro delle energie convenzionali?