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Dall’Iran agli States la partita incentivi

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E’ proprio vero che sono le energie rinnovabili ad aver bisogno degli incentivi pubblici per poter essere remunerative?

Fonte: Il Sole24ore

Autore: Marco Magrini

A metà dicembre, durante un’intervista televisiva a sorpresa, il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato agli iraniani la quadruplicazione dei prezzi della benzina. Dalla mattina seguente, il carburante non sarebbe più costato mille rial (7 centesimi di euro), ma 4mila (28 cent). A gennaio, dicono all’Agenzia internazionale dell’energia, i consumi interni iraniani si sono ridotti in un solo mese – complice un’economia decisamente stagnante – del 17 per cento.
Secondo David Victor, professore della University of California, i sussidi ai combustibili fossili ammontano a 500 miliardi di dollari (dato 2008). E non interessano soltanto i paesi più populisti dell’Opec.
Nella proposta di budget che presenterà la settimana prossima, l’amministrazione Obama chiede di eliminare progressivamente gli sgravi fiscali alle industrie del petrolio, del gas e del carbone che, in dieci anni, porterebbero alle casse federali 46,2 miliardi di dollari. «In questo modo – ha dichiarato il presidente – potremo incoraggiare l’economia delle energie pulite e ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili che causano i cambiamenti climatici». Big Oil e Big Coal, le lobby del petrolio e del carbone, rispondono che in questo modo si rallenteranno i necessari e dispendiosi investimenti, col risultato che l’economia americana diventerà ancor più dipendente dalle importazioni. I parlamentari, i media e l’opinione pubblica degli Stati americani che prosperano sulle energie fossili – dal petrolio del Texas al carbone della West Virginia – già gridano l’altolà. E gli umori in Senato non lasciano intendere l’imminenza di una rivoluzione, nella politica fiscale ed energetica americana.
Come dimostra il caso iraniano, fra i sussidi governativi e i consumi di combustibili fossili c’è una relazione diretta: se togli i primi, il secondo cala. Possono servire a stimolare l’economia e a proteggere le fasce sociali più deboli, e sono un formidabile strumento politico: il Venezuela di Chavez non soltanto offre prezzi alla pompa più bassi di quelli iraniani, ma vende benzina “popolare” anche a Cuba. Però i sussidi servono anche a incoraggiare il consumo già spropositato (ogni giorno, il mondo brucia oltre 90 milioni di barili) di una risorsa così preziosa e, per definizione, non rinnovabile. Perdipiù, nel momento sbagliato: se le politiche energetiche non cambiano, l’Aie stima che nel 2035 la domanda globale sfiorerà i 110 milioni di barili al giorno. E intanto «la produzione di greggio convenzionale potrebbe aver raggiunto il picco», come sentenzia il direttore dell’agenzia parigina, Nobuo Tanaka.
Tutti dicono che le energie rinnovabili non stanno in piedi, senza sussidi e incentivi governativi. «Eppure fra il 2002 e il 2008 – osserva Steve Sawyer, numero uno del Gwec, la federazione mondiale dell’industria eolica – gli Usa hanno speso 72 miliardi in sussidi alle energie fossili e 29 a quelle rinnovabili. Peccato che, di questi 29, ben 16,8 siano andati al bioetanolo: un sussidio per l’agricoltura, non per le rinnovabili».
«Il budget prevede anche 8 miliardi per lo sviluppo delle energie pulite», ha scritto ieri sul suo blog Steven Chu, ministro dell’Energia di Obama, scienziato e premio Nobel. «Ma la responsabilità fiscale richiede di condividere i sacrifici: già l’anno prossimo, la fine degli sgravi fiscali alle energie fossili farebbe risparmiare ai contribuenti 3,6 miliardi di dollari». Senza dimenticare, ricorda Chu, che la proposta è in linea con gli esiti del vertice G-20 di Pittsburgh, che aveva deliberato «di razionalizzare ed eliminare progressivamente i sussidi alle energie fossili – si legge nel comunicato del settembre 2009 – che incoraggiano un consumo irrazionale» delle risorse.
Qualora la Casa Bianca riuscisse a rimuovere gli sgravi fiscali a Big Oil e Big Coal, gli americani continueranno a pagare la benzina la metà che in Europa, grazie a un altro sussidio mascherato: la bassa tassazione alla pompa. Una specie di tabù inviolabile, sul quale nessun presidente oserebbe mettere mano. «I combustibili fossili hanno un basso prezzo artificiale perché godono dei sussidi che portano a un aumento delle tasse – riassume Kelly Rigg sull’Huffington Post – mentre le fonti di energia rinnovabile hanno minori incentivi anche se possono creare posti di lavoro e quindi generare reddito per le casse federali».
Certo l’America, che rappresenta solo il 5% dei cittadini del mondo, consuma ancora il 25% del greggio globale. Ma non c’è solo l’America. O l’Iran. Oil Change International e Oil Track, due organizzazioni indipendenti, hanno appena pubblicato un dettagliato report sulle misure intraprese, paese per paese. E le conclusioni sono facilmente riassumibili in una frase: «Nessun paese ha iniziato un processo di riforma dei sussidi, in risposta alla delibera del G-20», si legge nel documento. Il quale, racconta che in Arabia Saudita la benzina costa il 70% in meno del prezzo di mercato, che nel 2008 l’India ha speso 23 miliardi di dollari in sussidi, 38 la Cina e 50 la Russia.
Chissà se Obama ce la farà a condurre in porto questa revisione fiscale che rimescola almeno un po’ le carte dell’inefficiente politica energetica americana. «ExxonMobil ha migliorato i profitti del 53% e Chevron del 72 – si legge in una lettera firmata da dieci senatori democratici a caccia di consenso popolare – mentre molti americani ancora faticano a trovare un lavoro».
Intanto, dall’altra parte del mondo, dove si riverberano le scosse della rivoluzione egiziana, il dittatore Ahmadinejad è sicuro di una cosa: quei 28 centesimi al litro non si toccano.