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Clima, Durban evita il fallimento

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Accordo globale, ma dal 2020
Per la prima volta gli impegni non toccano solo i Paesi sviluppati

Fonte: La Nazione

Autore: Alessandro Farruggia

«OGGI abbiamo fatto la storia». Erano le 5 del mattino (le 4 in Italia) di ieri quando Maite Nkoana-Mashabane, il ministro dell’ambiente sudafricano che ha presieduto la conferenza di Durban (Cop17), ha battuto il martelletto della plenaria segnando la fine di una maratona negoziale che ha confezionato un accordo ambientalmente inadeguato, ma che segna una svolta nella storia delle negoziazioni climatiche perché per la prima volta pone le premesse per un accordo globale. Cioè la sola azione che potrà essere davvero incisiva contro i cambiamenti climatici.
Il primo punto del ‘pacchetto di Durban’ è il via libera al ‘Kyoto 2’, nel quale la riduzione delle emissioni sarà però volontaria. Acqua fresca quindi, senza considerare che comunque i soli paesi sviluppati che sono intenzionati a ratificarlo sono Ue, Australia, Norvegia, Svizzera e Nuova Zelanda. Ma il via libera al ‘Kyoto 2’ ha consentito di sbloccare il punto davvero importante in discussione a Durban: l’accordo globale. La conferenza, recita il documento approvato, «lancia un processo che abbia esito legale e sia applicabile a tutti gli stati». Il processo sarà affidato ad un nuovo gruppo negoziale che dovrà completare i lavori «prima possibile e comunque non oltre il 2015» in modo che l’accordo possa essere approvato entro il dicembre 2015 e diventare operativo «entro il 2020». Il pacchetto di Durban include anche il Green Climate Found per i paesi in via di sviluppo, che dovrà essere finanziato (ma ancora non si sa come) con 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020, un Comitato sull’Adattamento e un Meccanismo per il trasferimento di tecnologie.
CERTO È che il fallimento è stato a un passo. Alle 3 del mattino la plenaria si è infatti incendiata con un duro scontro tra il commissario europeo Connie Hedegaard, il ministro dell’ambiente indiano e il caponegoziazione cinese sulla forma legale dell’accordo. «Abbiamo bisogno di chiarezza — ha detto il capodelegazione dell’Ue — e abbiamo bisogno di impegni». Durissima la replica. Il ministro dell’ambiente indiano Jayanthi Natarajan, ha obiettato come ai paesi in via di sviluppo veniva chiesto di firmare un accordo a scatola chiusa. «Chi vi dà il diritto — ha attaccato il capodelegazione cinese rivolgendosi all’Ue — di dirci che cosa dobbiamo fare?». A un passo dal fallimento, il ministro Mashabane, ha chiesto a Cina, India, Usa, Gran Bretagna, Francia, Svezia, Gambia, Brasile e Polonia di riunirsi in un gruppo ristretto attorno a un tavolo, in plenaria, circondati dagli altri delegati. E lì si è riusciti a trovare una intesa grazie al capodelegazione brasiliano, il giurista Luis Figueres. Due ore dopo, riscritti i testi, la plenaria ha dato via libera.
«SIAMO usciti dal ‘cono d’ombra’ di Copenaghen. L’accordo — ha commentato il ministro dell’Ambiente italiano, Corrado Clini — supera i limiti di Kyoto ed ha una dimensione globale. Offre all’Europa, e soprattutto all’Italia, la possibilità di costituire la ‘piattaforma’ per lo sviluppo con le grandi economie emergenti». Critici gli ambientalisti, dal Wwf a Greenpeace. «I governi — osserva Mariagrazia Midulla, responsabile clima del Wwf — hanno raggiunto un accordo debole, che rimanda le decisioni più importanti sui contenuti del Kyoto2 e hanno preso un impegno per raggiungere nel 2020 un accordo globale che potrebbe però portare a un aumento della temperatura di 4°». Tutto vero, ma l’alternativa era il fallimento totale.