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TRE GENERAZIONI E UN PATTO VERDE

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Non c´è da dare molto credito agli impegni del G8 soprattutto per quanto riguarda la riduzione dei gas di serra fissata al 50 per cento per il 2050, senza obiettivi intermedi su cui attivarsi subito.

Fonte: La Repubblica

Autore: GUIDO VIALE

Speriamo che il vertice sul clima di
novembre a Copenhagen costringa i governi a una maggiore concretezza.
Una volta fissati degli obiettivi intermedi – per esempio quelli
per il 2020 – bisognerà “costruire le filiere”;
promuovere una politica industriale con ricorsi decrescenti ai
combustibili fossili e crescenti alle fonti rinnovabili.
Il
nucleare su cui punta, con altri, il governo italiano non è una
risposta. I rischi del nucleare sono altissimi, non solo per la
sicurezza; c´è anche un rischio di blocco dei cantieri; poi quelli
economici: i ritardi dilatano – come dimostra la fallimentare
esperienza finlandese di Olkiluoto – i costi astronomici degli
impianti. Poi il costo dell´uranio è decuplicato nonostante le
riserve prelevate dagli arsenali nucleari. Ma con i programmi
annunciati – soprattutto in paesi dove con democrazia e
consapevolezza ambientale assenti – le riserve di uranio saranno
esaurite, o già tutte accaparrate, quando ci saranno le prime
centrali italiane. Poi il nucleare, irrealistico senza sovvenzioni
pubbliche, sottrae risorse alle fonti rinnovabili: le uniche che
garantiscono costi di investimento in calo e costi di esercizio bassi
o nulli.

Ma che cosa significa “costruire
la filiera”? Significa garantire l´autonomia nazionale e locale
a tutte le fasi di un´economia a basse emissioni: fabbriche per
l´impiantistica: pannelli solari termici e fotovoltaici (importiamo
entrambi, nonostante i primi siano poco più di un tubo e una lastra
di vetro); impianti termodinamici (inventati in Italia, che però non
ne ha ancora neanche uno); pale e rotori eolici (macro e micro);
impianti di cogenerazione diffusa (per sfruttare a fondo sia il
metano importato che gli scarti agricoli e forestali, oggi
abbandonati a generare altro gas di serra). Poi ricerca su
generazione microidraulica, geotermia di profondità e moto ondoso.
Ma sui territori ci vogliono anche analisti, progettisti,
installatori e manutentori: le fonti rinnovabili richiedono impianti
diffusi e mirati sulle caratteristiche dei luoghi: tetto per tetto,
campo per campo, bosco per bosco. Per ogni territorio mix di fonti e
assetti impiantistici diversi, e attenzione specifica per il
paesaggio. Ma anche per i “carichi energetici” abbinati; in
alcuni casi assorbono energia supplementare dalla rete, in altri la
cedono. Molte fonti sono “intermittenti” e la continuità
dell´erogazione può essere garantita solo ridisegnando la rete. Poi
ci vogliono interventi mirati anche per ridurre i consumi e
accrescere l´efficienza energetica: su edilizia, trasporti,
agricoltura, industria.

È un programma grandioso: se gli
impegni assunti con tanta leggerezza dal G8 saranno rispettati, terrà
occupate due o tre generazioni di scienziati, progettisti, tecnici,
lavoratori e cittadini; soprattutto a livello locale, coinvolgendo
municipalità, imprese, associazioni civiche, sindacati, università
e ricerca. Perché mix impiantistici ed efficienza energetica
richiedono attenzioni per i contesti locali che solo chi ci vive e
lavora possiede e si possono programmare solo con la mobilitazione di
saperi diffusi, oggi in gran parte inutilizzati, che potrebbe anche
rivitalizzare la democrazia. Ma che fanno marketing per chi
intraprende in questi settori (l´Elettrolux di Scandicci,
riconvertita alla produzione di pannelli solari, ne è un esempio) e
a promuovere efficienza energetica nei paesi che non potranno mai
raggiungere il “modello di sviluppo” dell´Occidente.
Utopia? No. Se allo scoppio della seconda guerra mondiale Stati Uniti
e Inghilterra riuscivano a riconvertire in pochi mesi il loro
apparato industriale nella produzione di armi, la consapevolezza (che
per ora manca) della sfida del clima dovrebbe spingere i nostri
governanti a uno sforzo analogo. Ma quanto costerà, e chi pagherà,
un programma del genere?

Non si tratta di interventi aggiuntivi,
ma sostitutivi dei costi che oggi vengono affrontati per vivere e
produrre con i combustibili fossili. Non solo i costi di petrolio,
carbone e gas – e dell´inevitabile ritorno alle stelle dei loro
prezzi – risparmiati con l´efficienza energetica; e neanche solo
costi di nuovi impianti, termoelettrici o nucleari. Si eviteranno
anche molti costi di settori che vanno a rotoli per i limiti
raggiunti dalla “capacità di carico” del pianeta.
Innanzitutto l´industria automobilistica, al cui sostegno è
destinato quasi tutto il denaro pubblico non utilizzato per le
banche: un´industria comunque destinata a ridimensionarsi. A che
serve gettare miliardi, e trascinare in battaglie perse lavoratori e
amministrazioni locali, per tenere in piedi impianti agevolmente
riconvertibili all´impiantistica energetica? O incentivare vendite
sottocosto di automobili, sapendo che chi compra oggi non comprerà
più domani e il mercato tornerà a languire? Non è meglio
finanziare un trasporto più efficiente, rapido, comodo, meno
devastante per l´ambiente e i nervi? Perché sostenere l´occupazione
nell´edilizia con nuovi edifici o allargando a vanvera quelli
esistenti invece che con interventi di efficienza energetica? E
perché sovvenzionare un sistema agroalimentare che tra
fertilizzanti, pesticidi, motorizzazione, trasporti, catene del
freddo, lavorazioni e imballaggi superflui produce solo gas di serra?
Non sarebbe meglio rivitalizzare le colture locali e restituire la
sicurezza alimentare a miliardi di abitanti affamati da una
devastante agricoltura superindustrializzata? E così via. Insomma,
perché, di fronte alla crisi, nessuno parla di riconversione
produttiva?