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L’Italia dell’olio è in dismissione. In Toscana il 27% degli oliveti è in abbandono.

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I pochi marchi italiani (veri) a caccia di soci. Produzione dimezzata, meno dop, male in Usa e Giappone.

Fonte: Italia Oggi

Autore: Alberto Grimelli

L’Italia olearia, quella dell’industria e degli imbottigliatori, è in crisi, con importanti cali delle vendite. Sul fronte interno il crollo dei consumi, passati dalle 800 mila tonnellate del 2003 alle 600 mila attuali, e su quello estero la disaffezione degli americani per il nostro product of Italy, con un calo dell’export dal 2010.
Al contempo l’Italia olivicola, quella degli olivicoltori e dei frantoiani, è alle prese con un’emorragia di addetti. Dai circa 6 mila frantoiani degli anni 1990 si è passati agli attuali 4 mila. Da una produzione di 500 mila tonnellate dello stesso periodo si è passati alle attuali 300 mila tonnellate. Solo in Toscana, come dichiarato recentemente dall’assessore all’agricoltura, Marco Remaschi, il 27% degli oliveti è in stato di abbandono. La mancanza di competitività del sistema olivicolo-oleario nel suo complesso sta nei numeri. Nel 1993/94, secondo dati del Consiglio oleicolo internazionale, l’Italia esportava circa 125 mila tonnellate di oli d’oliva confezionati verso gli Usa. Nel 2014/15 ne ha esportati 122 mila tonnellate. Nello stesso periodo le importazioni americane sono raddoppiate, a tutto vantaggio di aziende spagnole, tunisine e greche. Sebbene le nostre denominazioni d’origine vengano considerate la punta di diamante del Made in Italy, a più di vent’anni dalla loro istituzione continuano a rappresentare il 2-3% delle vendite degli extra vergini a livello nazionale. Anche sul fronte export, secondo il rapporto Qualivita, nel 2014 gli oli Dop/Igp hanno avuto trend negativi, in controtendenza rispetto all’andamento generale del settore agroalimentare, con una diminuzione del 10% in valore. L’Italia olearia sconta una perdita di competitività, con i principali marchi volati all’estero (Carapelli, Bertolli, Sasso, Filippo Berio e Sagra), altri che cercano soci e nuovo management (Colavita e Dante) e altri ancora (Monini) su cui circolano voci non confermate di vendita. Così l’Italia perde quote di mercato anche in Giappone dove fino al 2008/2009 dominava. Dal 2013/14 invece la leadership l’ha acquisita la Spagna con il 47% del mercato, contro il 44% dell’Italia. In Corea del Sud, che ha visto triplicare le importazioni di oli d’oliva in pochi anni, la Spagna, domina con il 72% del mercato, poi l’Italia con il 25%. Se l’Italia olearia arranca, quella olivicola non è mai decollata. Si aspetta il nostro primo piano olivicolo nazionale, annunciato nella primavera 2015, mentre la Spagna varò il primo nel 1972 e l’Andalusia ha deciso di dedicare al settore 300 milioni di euro, dieci volte quanto previsto dal piano olivicolo nazionale italiano. Per riacquisire centralità nel panorama olivicolo-oleario nazionale l’Italia deve superare una crisi di credibilità, minata da scandali di portata mondiale. Un ritorno alla legalità particolarmente sentito da tutte le associazioni, dagli industriali di Assitol, ai produttori di Unaprol, Cno e Unasco fino ai frantoiani di Aifo, che, audite dalle commissioni giustizia e agricoltura della Camera, hanno espresso la loro contrarietà alla bozza di decreto legislativo sulle sanzioni per l’olio, reo di aprire la strada a una possibile depenalizzazione.