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L’Europa, la Cina e lo spettro del declino tecnologico

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I perché dietro la paventata guerra commerciale sino-europea sui pannelli solari

Fonte: greenreport.it

Autore: di Daniela Palma e Guido Iodice, keynesblog.com

Tempi duri per l’Europa. E non soltanto per la crisi economica che giorno dopo giorno appare sempre più simile ad un bollettino di guerra, ma anche per la difficoltà con cui i suoi governanti riescono  a divenire pienamente coscienti dei profondi cambiamenti strutturali che stanno attraversando l’economia mondiale. E’ del tutto emblematico in questo senso l’annuncio da parte dell’UE il 6 settembre scorso di voler procedere ad una inchiesta sulla presunta concorrenza sleale dei produttori di pannelli solari di Pechino ponendo le premesse per una guerra commerciale. Ma ancora più emblematica è la reazione del portavoce del ministero del Commercio cinese, Shen Danyang che ha prontamente fatto rimbalzare al mittente l’attacco con tipico tratto di saggezza asiatica, dichiarando il "profondo rammarico" del suo governo ma aggiungendo anche che "le barriere per i prodotti cinesi non minerebbero soltanto gli interessi dell’industria cinese ed europea, ma indebolirebbero lo sviluppo globale del settore del solare e delle energie pulite".
In effetti conviene prendere molto seriamente le parole del dragone cinese. A ricordarcelo una volta di più sono alcuni tra i più importanti contenuti emersi proprio durante l’ultimo vertice sino-europeo svoltosi il 20 settembre, durante il quale gli europei hanno dovuto necessariamente prendere atto della profonda contraddizione tra l’accogliere la disponibilità della Cina a sostenere il loro debito, da un lato, e le recenti rimostranze sollevate sul dumping dei pannelli solari, dall’altro.
A ben guardare le cifre sembrano essere decisamente a favore dei sospetti europei: nel 2011 la Cina ha realizzato nell’UE vendite di pannelli solari e componenti per un totale di 21 miliardi di euro, pari al 60% delle sue esportazioni nel settore. Un raddoppio del fatturato rispetto all’anno precedente, che non può che essere sostenuto da prezzi sotto costo, le perdite per i quali, sempre secondo l’accusa, sarebbero poi compensate da un accesso al credito di fatto illimitato e a tassi di interesse favorevoli, concesso dalle banche dipendenti dallo Stato.
Non sempre, tuttavia, le evidenze più schiaccianti che i numeri ci pongono di fronte riescono a raccontarci tutta la verità, a meno di non procedere in un ulteriore scavo dei fatti, e in una lettura più approfondita dei processi che li determinano.
Supponendo anche che gli europei riescano a dimostrare la loro ragione, ciò di cui non si tiene conto (o si fa finta di non tener conto) è il quadro di una realtà ben più complessa, che ci racconta di una Cina ben diversa da quella dell’inizio del trascorso decennio, pronta ad occupare la scena mondiale come soggetto economico a tutto tondo, in virtù di uno sviluppo non più solo trainato dagli investimenti diretti esteri occidentali ed approfittando dei bassi costi del lavoro. La Cina sta cambiando a grandi passi la sua carta di identità, puntando sempre più sull’investimento in Ricerca e Sviluppo e su industrie ad elevata intensità tecnologica.  Dal 1999 la spesa cinese in R&S è cresciuta a ritmo del +20% annuo raggiungendo attualmente i 100 miliardi di dollari, con una variazione di +26% tra il 2011 e il 2012, tutte percentuali di incremento di gran lunga più elevate di quelle dell’Europa e degli Stati Uniti.
In altri termini ciò vuol dire che scongiurare la concorrenza cinese (così come quella della più vasta area del sud est asiatico sulla quale si sta saldando una sempre più fitta rete di commercio e di investimenti) con la minaccia di una guerra commerciale è, al di là di ogni convenienza diplomatica per l’Europa, sostanzialmente inutile. L’approccio ha un respiro cortissimo, mentre non stenta a disvelare la completa miopia che sta guidando le attuali politiche europee e la pessima gestione della crisi economica che ne consegue. Sarebbe il caso, piuttosto, che i governi europei iniziassero ad andare a scuola dai cinesi per imparare che lo sviluppo non lo crea il mercato, ma uno Stato presente e costruttivo nell’intraprendere investimenti capaci di trasformare le realtà produttive, superandone l’obsolescenza tecnologica.  Continuare a trasmettere l’immagine di una Cina "brutta e cattiva" non serve a nulla, se non a creare un ottimo nemico a sostegno di un alibi che si vuole di ferro. "Acquisisci nuove conoscenze mentre rifletti sulle vecchie, e forse potrai insegnare ad altri": parola di Confucio.